lunedì 12 dicembre 2005

"La sposa siriana" di Eran Riklis


Trama: la drusa Mona sta per sposare il siriano Tallel, un uomo che non ha mai visto ma che non può rifiutare perché impostole come marito dai genitori, inoltre, dopo aver varcato il confine tra Israele e Siria ed esser così diventata a tutti gli effetti cittadina siriana, Mona non potrà più far ritorno dalla sua famiglia.

Si spengono le luci in sala, sprofondo meglio nella poltrona, appaiono sullo schermo i titoli di testa e il film ha così inizio.

Ma… c’è qualcosa che non quadra: gli attori parlano in lingua originale, ma non doveva essere doppiato? E perché i sottotitoli ogni volta che appaiono in sovrimpressione c’è sempre qualcuno o qualcosa di bianco dietro?

Strabuzzo un po’ di più gli occhi e comincio a seguire le vicende di questa famiglia drusa che vive sulle alture del Golan.

Il matrimonio di Mona è però un pretesto per parlare anche di tutti gli altri componenti della famiglia, ognuno con il suo dramma e i suoi problemi, e per raccontare soprattutto l’assurdità della legge che vige nel Golan.

Dalla metà in poi della pellicola, tutta la vicenda prosegue e termina in quella zona franca che è il confine tra Israele e Siria, dove la famiglia di Mona attende il visto necessario per la sposa ad oltrepassare il cancello che la porterà dal futuro marito.

I protagonisti sono così rinchiusi tra reti metalliche e filo spinato, ingabbiati tra loro e costretti così, volenti o nolenti, ad esaminare la loro vita e, se possibile, rimediare agli errori fatti in precedenza.

Mona per tutto il corso del film non ha diritto alla parola, e le poche volte in cui parla è solo per sottolineare la triste situazione in cui è stata costretta per volere dai genitori; ogni frase che pronuncia è legata alla tristezza, al dolore per la perdita della famiglia, nonostante stia per sposarsi e tutti siano fieri di lei. Solo alla fine del film deciderà per se stessa.

E deciderà della sua vita anche la sorella maggiore di Mona che, dopo aver passato tutta la vita guardando il mondo attraverso le restrizioni impostole dal marito, percorre la strada la sua nuova strada lasciandosi alle spalle la sua famiglia dopo aver guardato per un’ultima volta la realtà oltre le sbarre del cancello del confine (le stesse che si vedono nella locandina del film).

Questi sono due esempi femminili di ribellione, emancipazione alle regole ormai soffocanti imposte dalla tradizione, in una storia in cui gli uomini vengono messi in cattiva luce all’inizio, ma che riescono a riscattarsi poi alla fine del film (ad esempio il padre di Mona in rapporto al figlio maggiore che contro il suo volere aveva sposato una donna russa).

Lo scontro tra mentalità diverse è anche sottolineato dalle varie lingue che si parlano nel corso del film, dal francese all’inglese, fino all’ebraico.

Ma più che le parole, in questo film contano i gesti, gli sguardi che i protagonisti si scambiano, dando a tutto il film un tocco poetico.

Vederlo in lingua originale non è stato per niente noioso, anzi, la varietà di lingue parlate nel corso del film spezza la monotonia che può trasparire da una lingua di cui non conosciamo nemmeno i primi rudimenti e che per capire dobbiamo tenere sempre gli occhi incollati in fondo allo schermo per leggerne i sottotitoli, facendoci però perdere la metà delle immagini che passano dietro.

E’ un buon film che è riuscito a dare un'ampia visione sulla situazione politica e sociale in cui si trovano gli abitanti del Golan.

8½/10

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