sabato 28 ottobre 2006

"La fata carabina" di Daniel Pennac | "Fur - Un ritratto immaginario di Diane Arbus" di Steven Shainberg (2006)

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Dopo aver letto il primo volume della saga della famiglia Malaussène, ci riprovo, a distanza di due anni, col secondo.
Se del “Il paradiso degli orchi” mi sono rimasti impressi solo Benjamin e tutta la sua stramba famiglia, compreso il cane - mentre del resto del racconto ricordo solo vagamente bombe che esplodono in un grande magazzino, vecchietti a brandelli e “qualcuno” che cerca di risolvere il giallo - con il suo seguito ho ritrovato gli stessi intoppi: faccio fatica a seguire i discorsi arzigogolati di Pennac, che ha la particolarità di raccontare anche un semplice fatto, con tutta una serie di periodi che si accavallano con parole dai doppi sensi, termini modificati ad hoc per l’utilizzo, con una sintassi, quindi, abbastanza scombussolata.
Lo stile di Pennac è questo, e so che è grazie a lui se è diventato famoso e apprezzato dalla critica, ma ammetto le mie difficoltà nel “stargli dietro”.
E’ pur sempre spiritoso, ironico, tagliente, ma è lo stile a non convincermi, o semplicemente, perché Pennac è per i palati sopraffini… e nonostante abbia letto anche tomi piuttosto elevati, non è un autore fatto per me.
Trovo sempre e comunque, come nel primo romanzo, molto divertenti e tenere le parti in cui si trovano in scena i componenti della famiglia Malaussène, con il loro non-sense, il loro volersi bene incondizionato nonostante i tiri mancini reciproci.
E sono proprio i Malaussène insieme alle “denunce sociali” celate dietro l’ironia e la leggerezza (in questo romanzo è criticata la società che ormai pullula di cattiveria), a rimanere nei miei ricordi; tutto il resto, anche i personaggi secondari con annesso e ricorrente giallo da risolvere, una volta girata l’ultima pagina, svaniscono per essere inghiottiti da una memoria che si fa sempre più confusa.
Ma il desiderio di rincontrare ancora la famiglia Malaussène è talmente forte, che finirò per leggere gli ultimi tre romanzi della serie.

6/10

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Come specificato all’inizio del film, da alcune didascalie, Shainberg elabora in modo del tutto personale la biografia (scritta da Patricia Bosworth) di Diane Arbus, eccentrica fotografa americana morta suicida nel 1971 a 48 anni, i cui soggetti prediletti erano i freaks (quelli che Browning nel 1932 aveva ritratto nel film omonimo).
Il film, rivisitato e corretto in questo modo, è da considerare separatamente dalla fonte principale di ispirazione, altrimenti si rischia di non apprezzarlo per niente.
“Fur” è surreale e inquietante come le fotografie della Arbus, mai mostrate durante la pellicola su imposizione della Fondazione Arbus che non ha concesso i diritti d’utilizzazione delle opere.
Diane per l’intero film cerca di far capire, alla famiglia e a chi le sta vicino, che quegli esseri definiti strambi non sono da considerarsi tali, ma di “rivalutarli” adeguatamente, come esseri umani facenti parte di un universo nel quale non c’è nulla di cui vergognarsi; la frase emblema del suo percorso creativo è quella pronunciata davanti a una prostituta statuaria e un uomo nudo (il cliente) che ballano insieme: “E’ bellissimo”, detto con sguardo estasiato e felice.
Lo stesso sguardo che rivolge al vicino di casa Lionel, affetto da ipertricosi, il primo a darle la spinta decisiva per intraprendere una carriera fotografica.
Se da questo punto di vista il film è ben fatto - cioè il mostrare la crescita creativa della fotografa immaginaria [e quella dei peli del co-protagonista…] - ho trovato invece forzato il mostrare la (immaginaria) Arbus come una donna costretta dalle convenzioni sociali, moglie e madre modello, la tipica donnina benestante degli anni ’50 americani, che improvvisamente conosce l’altra parte del mondo e cambia radicalmente vita sbizzarrendosi con un bel cappottino composto da un’esplosione tricotica [Apelle, figlio di Apollo, fece una palla di peli di pollo, e tutti i peli vennero a galla per vedere la palla di peli di pollo].
La crescita interiore, così mostrata, sa solo di muffa.
Meglio sarebbe stato non insistere sulla vita grama della protagonista.
Notevoli le musiche jazz che rendono ancora più ipnotiche le immagini, e la bravura di Nicole Kidman ha davvero bisogno di commenti? Credo di no!

7/10


P. S.: i titoli di coda scorrevano è ho avuto una rivelazione: la Bestia, de “La Bella e la Bestia”, era affetta da ipertricosi…

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