mercoledì 29 novembre 2006

"I figli degli uomini" di Alfonso Cuarón (2006) | "Piccole donne uccidono" di Louise May Alcott

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T’aspetti animali mutanti, macchinine volanti, arti artificiali con vita propria, bombe radiocomandate, forni a microonde atomici, e invece il 2027 di Cuarón è tale e quale al presente del 2006.
Ottima scelta il mantenere una correlazione col mondo odierno, senza spaziare troppo con la fantasia, anche se il messaggio subliminale che si ricava non è nuovo: tutto questo potrebbe accadere domani e non fra mille anni...
Della storia si sa poco e nel corso del film molti aspetti vengono lasciati un po’ al caso, tocca allo spettatore seguire il filo logico degli eventi. Ma d’altronde non sa nemmeno molto Theo, il protagonista, trovatosi invischiato con un paio di infradito in una rocambolesca fuga dalla Londra bombarola dei prossimi ventun anni.
Una fuga ricca di suspance, girata con grande abilità attraverso l’utilizzo di sorprendenti piani sequenza [e non venitemi a dire che gli schizzi di sangue sull’obiettivo non sono stati tolti per rendere la scena il più realistica possibile, o per sottolineare che in fondo è tutto “finto”: se è un piano sequenza come cazzarola faceva l’operatore a interrompere le riprese per pulire l’obiettivo?], ed è in queste scene che Cuarón da il meglio di sé e per tutta la loro durata lo spettatore se ne sta rigido sulla poltrona.
Poi però tutto finisce e pensi che in fondo tutto sto popò di roba porta al solito finale carico di speranza, che occhieggia un po’ alla sequenza del transatlantico di “Amarcord”.
Dopo averci mostrato morti sventrati, prigionieri torturati (aridaje con gli incappucciati di Abu Ghraib), orde di assatanati estremisti islamici, profughi rinchiusi in gabbie, bassifondi malfamati e mi fermo qua, terminare il film con la parola “domani” ha fatto crollare tutto il mio entusiasmo e invece di pensare all’antieroe morto per la patria, pensavo solamente a Rossella O’Hara.
Non ho nemmeno parlato dei bambini del titolo, il fatto è che tutto il film più che dare importanza ai pargoli, futuri condottieri del mondo, sembra dare solo risalto alle denunce politico-sociali nascoste qua e là.
Leggiamoci il libro, che mi sa che è meglio: “I figli degli uomini” di P. D. James.

7/10

[voto discreto raggiunto grazie alle sequenze d’azione]



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Spacciata con quel titolo come una raccolta di racconti in cui le eteree fanciulle della famiglia March sono alle prese, invece che con ricami e faccende domestiche, con omicidi e intrighi, in realtà il libro non ha nulla a che fare con la saga di “Piccole donne”.
Infatti, la serie è stata scritta solo in un secondo tempo, e il vero titolo della raccolta - che in inglese è “A double life” - è decisamente più azzeccato e non mette in confusione il lettore: si riferisce alla doppia vita della scrittrice che vide pubblicati sotto falso nome su alcuni quotidiani una lunga serie di racconti che si discostano totalmente dai romanzi che l’hanno resa nota fra le ragazzine di tutto il mondo.
La raccolta racchiude quattro di quei racconti che affrontano temi come suicidio, pazzia, omicidio e poteri occulti; descritta così la raccolta potrebbe sembrare molto accattivante e capace di svelare un sorprendente lato nascosto della dolce Alcott, ma non è così, perché tutti i racconti incarnano i classici stereotipi e colpi di scena da romanzo gotico e sentimentale.
Un amore sbocciato tra il rude principe russo a cui piace menar le mani e la dama di compagnia, ricorda la tipica storia d’amore tra due individui di ceto opposto ma che il profondo sentimento con la A maiuscola riesce a segnare col “e vissero felici e contenti”; donne possedute a cui farebbe comodo un esorcista e uomini un po’ fessi costellano la trama degli altri tre racconti che ricordano però, in modo troppo palese e senza neanche troppi sforzi per distinguersi, la lunga serie di romanzi del genere gotico.
Niente di nuovo, quindi, sotto il sole ottocentesco.
Certo, è strano leggere storie di questo tipo provenire direttamente dalla penna di una scrittrice come la Alcott, ma sono comunque racconti che all’epoca della pubblicazione (prima metà dell’Ottocento) spopolavano fra i lettori di quotidiani, e ciò mi fa pensare che la Alcott abbia ripiegato su questi generi per pure esigenze economiche.

5½/10

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