mercoledì 11 aprile 2007

Al cineforum tutti insieme appassionatamente

“The libertine” di Laurence Dunmore (2004): è un film complesso e ambizioso nel suo insieme, provocatorio fin dalle prime battute - “Io non ho nessuna intenzione di piacervi e non vi piacerò” dice il conte di Rochester, la cui vita è al centro della narrazione, durante il suo monologo iniziale - e se lo spettatore si sentirà offeso da tutto quello che vedrà dopo l’esplicita premessa iniziale, se lo doveva comunque aspettare; chi si lamenta invece di non veder mai affiorare nell’intero film l’essenza dell’artista John Wilmot (è sempre il conte, eh), dovrebbe rivedere un attimo l’intento del regista perché mi sa che non l’ha capito molto bene: già il titolo del film, “il libertino”, richiama alla mente ben altri temi che quelli letterari, e ci vengono infatti illustrate le prodezze del conte e gli eccessi poco ordinari a cui era dedito.
In un’atmosfera cupa e sporca, resa ancora più marcata dall’utilizzo della luce naturale del 1600, ricreata non artificialmente, lo spettatore ogni tanto potrà cadere vittima del disgusto (denti guasti, abiti luridi, pelle incrostata dal sudiciume…), potrà chiedersi cosa avrà voluto dire con quella contorta frase quel determinato personaggio - soprattutto se ha avuto l’insano desiderio di vedere l’intero film in lingua originale senza sottotitoli (ebbene sì, c’ho provato) - potrà chiedersi in fin dei conti cosa ci sia di così strabiliante in quei numerosi buchi di sceneggiatura, potrà chiedersi ‘ndo sta tutta quella passione di cui si parla nella locandina nostrana [non si vede ma lì sopra c’è scritto: “Accecato dalla passione, sedotto dal peccato”] ché l’amore tra l’attricetta e Wilmot è solo sesso suvvia! ma non potrà - soprattutto se femmina - non cedere al subbuglio ormonale provocato dalla vista di Johnny Depp, qui in tutto il suo splendore attoriale, la cui interpretazione vale l’intero film: lascivo ed erotico fino alla svenimento, assurge all’olimpo degli attori con la A maiuscola anche con denti marci e pustole in faccia.
Johnny, a me sei piaciuto, non ti preoccupare degli altri.

8/10

P.s.: recentemente ho avuto l’occasione di vedere il suddetto film doppiato in italiano: la lussuria sensuale che Johhny Depp trasmette appena apre bocca nella versione originale, viene completamente uccisa dalla vocina di Fabio Boccanera. Quindi dimenticate la versione italiana, anche per alcune sfumature linguistiche che tradotte in italiano sono incomprensibili.

“False verità” di Atom Egoyan (2005): posso dire che sono andata a vedere questo film soprattutto per le sbandierate scene di sesso? Bene. L’ho detto.
Ora che sono a posto con la coscienza posso proseguire.
Tratto dall’omonimo romanzo di Rupert Holmes, il film fatica a decollare e oscilla tra colpi di scena interessanti con però poca suspance, e sequenze scandite dalla voce off della protagonista davvero piatte. Sicuramente risente di diverse compressioni a livello di sceneggiatura, compensate dalla sopraccitata voce fuori campo, che però da sola non basta a spiegare le parti non rappresentate visivamente e ad incalzare lo spettatore, a spronarlo nella soluzione del thriller a tinte libidinose.
Un film che, se non noioso, è almeno insipido e facile da dimenticare.
L’entusiasmo che porta la giovane giornalista Karen O’Connor a introdursi nella vita di due popolari showman coinvolti più di quindici anni prima (negli anni ’50) in un omicidio rimasto irrisolto, è del tutto plausibile, ma incomprensibile è quello che la spinge fino ai rispettivi letti dei due uomini e a dare il meglio di sé fra le lenzuola.
E’ un elemento tutt’altro che importante per la risoluzione del mistero, e quelle sequenze sembrano proprio inserite a titolo gratuito.
Non convince nemmeno la validità degli attori, anche se la ricostruzione delle due epoche che si intrecciano attraverso i flash-back - anni ’50 e primi anni ’70 - risulta ben curata e un ascolto lo merita anche la colonna sonora inquietante quanto basta.
E’ comunque un film pieno di incertezze, che andrebbe approfondito in alcune parti - sicuramente tolte per dar spazio a quelle di sesso.
Una cosa è però certa: che il colpevole è sempre il maggiordomo.

5/10

“Nuovomondo” di Emanuele Crialese (2006): insoddisfatta, sono uscita dal cinema molto insoddisfatta. Mi aspettavo un filmone storico pieno di pathos e scene strappalacrime, una storia di poveri contadini emigranti che partono alla cieca verso l’America, li vediamo poi sbarcare su quella terra benedetta per poi seguire le numerose traversie di inserimento in una società agli antipodi di quella rurale.
Crialese preferisce invece incentrare 2/4 del racconto sul viaggio in nave senza mai mostrare in una inquadratura il transatlantico e nemmeno un pezzetto di sconfinato mare - a questo punto potevano star navigando benissimo nel Ticino dietro casa mia… - anche se la sequenza muta della partenza, in cui vediamo dall’alto i viaggiatori stipati che si staccano dal molo lasciando gli altri sulla terra ferma con il mare che li separa pian piano, è davvero carica di tensione e impressionante, forse l’unica sequenza davvero riuscita di tutto il film.
A inframmezzare il racconto ci sono diverse sequenze oniriche con ortaggi abnormi e mare di latte; perfette per illustrare i sogni idilliaci di chi partiva, ma l’inserirle davvero troppo spesso, come è stato fatto, le rende ripetitive e ridondanti.
L’ultima parte del film, in cui assistiamo ai test, esami fisici, tristi matrimoni di convenienza e altro a cui erano sottoposti i viaggiatori approdati a Ellis Island, mostra con grande interesse e cura le settimane che quei poveri cristi dovevano passare lì dentro prima di avere il tanto agognato lascia passare, ma, come detto in precedenza, ci manca qualcosa, e più che altro è una lista a mo’ di documentario di quello che capitava sull’isola. Purtroppo non c’è trasporto, sentimento.
Si distinguono però alcune scene, in primis quella già citata della partenza, che hanno per lo meno quella struttura da film italiano semplice, con buone emozioni che non scadono nella banalità: il dono di Salvatore alla bella Lucy, poetico nella sua rozzezza, la foto di gruppo, i giochi di sguardi tra la famiglia di Salvatore e la stessa Lucy.
In fondo che non vengano mostrati né la Statua della Libertà né i palazzi di cento piani che incombono dall’altra parte del mare, sottolinea l’idea mitica degli emigranti, l’incapacità di distaccarsi dalle credenze popolari che viene accentuata dalla situazione di limbo in cui si trovano per tutto il film; è un’ottima scelta ma che da sola non basta a fare di questo film “il” film italiano per eccellenza.
Che non abbia vinto nessun premio Oscar è tutto chiaro ormai.

6½/10

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