giovedì 26 aprile 2007

"Mio fratello è figlio unico" di Daniele Luchetti (2007) e "Sunshine" di Danny Boyle (2007)

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“Mio fratello è figlio unico”: tratto dal romanzo “Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi” di Antonio Pennacchi, il film ripercorre quindici anni di una famiglia italiana, partendo dal 1961, quella dei coniugi Benassi: padre operaio, madre un po’ credulona e tre figli - due maschi e una femmina (Accio, Manrico e Violetta).
Saranno i figli ad essere al centro degli avvenimenti più importanti del periodo, con la lotta studentesca e quella operaia, i primi scioperi, le occupazioni, le manifestazioni pro e contro fascismo e comunismo.
Potrebbe così sembrare un film molto vicino a “La meglio gioventù”, dove è la storia ad entrare nelle vite dei protagonisti, ma è letteralmente il contrario.
In primo piano qui ci viene raccontata la vita di un gruppo di persone, nella quale la storia e la politica subentrano solo perché sono proprio i personaggi a deciderlo; sono loro, come Accio (Elio Germano), a muoversi da una parte all’altra della “barricata”, sia di destra o sinistra, che decidono di partecipare a una manifestazione oppure no.
Gli avvenimenti degli anni ’60-’70 ci vengono così raccontati esclusivamente attraverso lo sguardo dei personaggi; ne risulta quindi un film più vicino al genere di formazione, che a quello politico-sociale, dato che è Accio che ci racconta la sua vita e quella degli altri mettendo in primo piano soprattutto il suo punto di vista e la sua crescita.
E’ una storia semplice, delicata, sul rapporto tra genitori e figli, e tra fratelli. Non a caso il titolo richiama le difficoltà di rapportarsi tra fratelli e in particolare tra Manrico (Riccardo Scamarcio) e Accio, divisi fino nella fede politica e come lo possono essere un fratello minore che osserva il maggiore.
Con tono disincantato, a volte comico e un po’ “caciarone”, altre volte drammatico si arriva a un finale malinconico, commovente, su cui grava il colpo di scena della penultima sequenza.
E’ però un finale aperto, simile a quello de “I quattrocento colpi” di Truffaut, ma con la certezza che oltre il mare c’è una nuova fase della propria vita e non un solo unico ostacolo formato dalle onde che si ripetono.

Ottima interpretazione dell’intero cast, spicca il giovane Elio Germano preferibile per certi versi a Riccardo Scamarcio, che per l’occasione è rientrato nei panni dell’attore “per passione” abbandonando quelli dell’attore “per cache” di “Ho voglia di te” (mamma mia, non fatemelo ricordare…).
Particolare la colonna sonora in cui vi si trovano brani dell’epoca riarrangiati però appositamente; da ascoltare la nuova versione di “Ma che freddo fa” di Nada che chiude i titoli di coda al cui arrivo è scattato pure l’applauso, per la canzone, per il film, per tutto.
Questi sono film!!!

10/10

P. s.: non ho letto il libro, ma vedere il film mi ha fatto venire davvero voglia di approfondire l’originale, cosa strana per me che penso che il film sia il “capolinea” di un libro, dopo il quale non si può più tornare indietro.

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“Sunshine”: “Il sole sta morendo. E noi con lui” dice il protagonista del film, rinchiuso insieme ad altri compagni in un’astronave che ha il compito di trasportare letteralmente la salvezza della Terra e dell’umanità verso il sole.
Ma fino a che punto l’uomo può contrastare il corso dei tempi? Fino a che punto si può spingere modificando la natura?
Lo scontro tra scienza e religione è il tema celato dietro un’avventura fantascientifica pompata al massimo dalla computer grafica e così “vera” da essere angosciante: l’immensità dello spazio nero, dove l’astronave fluttua, è claustrofobica nella certezza di non sapere qual è il suo punto d’arrivo, dov’è la fine di quello sconfinato buio; gli ambienti asettici dove si muovono, costretti, gli otto astronauti ricordano molto le scenografie di “2001: Odissea nello spazio” di Kubrick, poi ci sono il bianco accecante e stanze oscure dove enormi stantuffi assordanti si muovono e quasi respirano; situazioni che ricordano casa, la terra lontana, riprodotte virtualmente tramite un computer, sono il culmine della sterilità della vita che si svolge all’interno di quella macchina volante persa nel cosmo; e infine il sole, presenza costante e unica fonte vitale, non riprodotta, vicina agli astronauti, ma così abnorme e potente da far paura o, al contrario, da attirare irresistibilmente il suo sguardo mortale sugli uomini.
In una sequela di colpi di scena il film arriva ad assomigliare molto ai racconti di Frederic Brown, solo che non ci sono extraterrestri; gli alieni sono gli uomini che cercano di ragionare seguendo la fede in Dio, fino alla pazzia.
Non viene però dato un giudizio vero e proprio sull’argomento, anche se il finale è molto d’aiuto in questo senso.
Al di là del messaggio, lasciato con un incognita, che potrebbe apparire come una questione secondaria dell’intero film, la parte puramente di fantascienza inquieta fino alla fine lo spettatore, lo schiaccia, e la colonna sonora, priva di melodie, ne è d’aiuto.
C’è però un’attenzione allo splatter nella sequenza cruciale del film a mio parere un po’ fuori luogo, ma si sa che Danny Boyle è propenso per questo genere, e già ce ne aveva dato prova in “28 giorni dopo” [di cui consiglio la visione].
In fine, Kubrick ritorna in un omaggio allo stesso film sopraccitato anche poco prima dell’arrivo dei titoli di coda e, aggiungo, di stare attenti a certi bisturi rotanti: saranno molto d’aiuto per capire lo svolgersi della vicenda.

8/10

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