venerdì 5 ottobre 2007

Finalmente al cinema!

img57/5108/hairspraydl0.jpg

“Hairspray” di Adam Shankman (2007): ometto dal principio il ridicolo sottotitolo della versione italiana - “grasso è bello” - perché non c’entra assolutamente una mazza.

“Hairspray” è la rivincita di tutte le diversità, ritenute tali dalla società, sulla normalità e il rigore comune in salsa musical anni Sessanta.

Si balla, si canta, ci si diverte, si ragione un po’ e alla fine l’integrazione avrà la meglio sulla rigidità impacchettata dell’America del 1962, che potrebbe comunque essere trasposta anche ai giorni nostri.

Non facciamone quindi solo un film sulla “rivincita delle grasse”, perché è riduttivo e sminuisce il tema centrale di tutta la piccola.

Si passa dall’integrazione razziale, al bigottismo religioso tipico dell’epoca, al non essere alla moda, al non rientrare nei canoni di bellezza, all’accettarsi per quello che si è e all’avere qualche chilo in più.

Due ore di pura spensieratezza con coreografie divertenti, ottima colonna sonora e canzoni orecchiabili. Dopo i primi minuti di film non puoi far altro che lasciarti risucchiare dal vortice canterino e seguire le musiche battendo il piedino a tempo felice e contenta.

Il musical farà un po’ il verso a “Greese” - brillantina il primo... lacca il secondo - ma non fa rimpiangere assolutamente le atmosfere del suo predecessore, essendo anche un storia completamente diversa (e diverso anche l’anno d’ambientazione, 1959 e 1962), ma anzi gli tiene testa egregiamente con un cast eccellente di cui segnalo John Travolta (sempre leggiadro e disinvolto!) e l’esuberante protagonista femminile Nikki Blonsky.

8/10

img210/5077/28settimanedopoqb3.jpg

“28 settimane dopo” di Juan Carlos Fresnadillo (2007): questa la situazione al momento della proiezione: martedì sera, h 20:10. Quattro spettatori in tutto, io e il mio moroso compresi. Si spegne la luce. Dopo venti minuti gli altri due astanti si alzano e se ne vanno. E hanno buttato così 7 € a testa. I coglioni.

........................

E’ il seguito di “28 giorni dopo”, visto al cinema nell’estate del 2003. Cambia però il regista, essendo quello originale, Danny Boyle, impegnato in pellicole più importanti sul lato tematico [vedi “Sunshine” uscito recentemente]. Che senso ha quindi appropriarsi di una storia scritta e diretta da altri ed elaborarla a proprio piacimento? Nessuno, infatti.

Fresnadillo riparte da 28 giorni dopo la diffusione del virus che ha contagiato tutto il territorio londinese (come Boyle) presentandoci i protagonisti del suo film per poi lasciarli e riprendere a seguirli 28 settimane dopo.

Se Boyle aveva diretto un film geniale per il suo genere, conducendo il gioco con pochi elementi - non si sa che virus sia, i personaggi vagano in un città deserta e così calma da far venire la tachicardia, gli infetti sono dei mostri assatanati che per vederli morti gli si deve fracassare a mazzate il cranio - Fresnadillo avendo ormai tutto il lavoro spianato, e poco da inventare, basa tutta la pellicola sull’horror e sulla nausea degli spettatori: inseguimenti, attacchi degli infetti, i sani che scappano, scorticamenti, smaciullamenti, morsi, arti tranciati, sangue, sbrodolamenti, vomito, sangue, sangue, sangue, sangue e sangue.

In sostanza c’è poca trama, anche se i primi dieci minuti introduttivi ambientati ventotto giorni dopo sono davvero d’effetto, soprattutto nel momento in cui il lui della situazione decide di salvare sé stesso abbandonando la moglie in balia degli infetti, mentre lei gli urla “Don, aiutaci!!!”. Una sequenza atroce che mi ha ricordato il romanzo “La scelta di Sophie”, ma non stiamo troppo a sottilizzare.

Nel primo film Boyle aveva inserito sì diverse scene truci, ma mantenendo comunque una certa classe nelle riprese, con qualche tecnica d’inquadratura innovativa, e mai scadendo nell’horror ripetitivo con una sequela di attacchi e fughe che dopo un po’ con tutto quel mangiarsi e quel sangue a fiotti ne hai abbastanza per un po’.

“28 settimane dopo” è proprio questo, e a un quarto d’ora dalla fine il regista c’ha pure calcato la mano inutilmente riducendo anche il finale a qualcosa di stomachevole e ridicolmente catastrofico.

Certo, fa paura e in più occasioni mi sono cagata sotto *pardon per la finezza*, ma il film di Boyle non aveva affatto bisogno di un seguito. Se poi così rozzo.

5/10

img210/6443/framebd3.jpg

Un angelo alla mia tavola

Janet Frame

Einaudi tascabili, Einaudi, 11 € [ma la mia copia l’ho acquistata nel 1996... quanto tempo!]

Janet Frame è la più importante scrittrice neozelandese dagli anni ’50 a oggi, eppure in Italia solo nel 1990 con l’uscita del film omonimo diretto da Jane Campion qualcosa ha cominciato a muoversi e a far sì che una parte degli undici romanzi di questa autrice fosse pubblicata. Poi più niente. Tant’è che oggi in catalogo si trovano solo un paio dei suoi titoli.

Troppo poco per un’autrice del suo calibro, che è riuscita in questa autobiografia divisa in tre volumi (che l’Einaudi ha racchiuso in un unico tomo) a descrivere sé stessa, a raccontarsi con così tanto acume e delicatezza allo stesso tempo; un processo, quello autobiografico-psicologico, non facilissimo se si pensa che Janet Frame ha vissuto dai 21 ai 29 anni d’età [1945-1953] rinchiusa in un manicomio, ha perso così gran parte della giovinezza a causa di medici ottusi che avevano scambiato la sua enorme sensibilità e timidezza in schizofrenia.

Sottoposta a qualcosa come duecento elettroshock e scampata per un caso fortuito alla lobotomia (durante la degenza in ospedale Janet viene insignita di un premio letterario, grazie a un libro che aveva precedentemente pubblicato), si libera di quel periodo oscuro della sua vita e riprende un’esistenza normale.

Il tutto raccontato in questi tre romanzi, dall’infanzia con le tre sorelle e il fratello, il padre e la madre che fanno i salti mortali per permettere a lei e alle ultime due sorelle di studiare e forse diventare insegnanti, passando sempre a scuola come in famiglia per una bambina “diversa”, solitaria, troppo timida e sognatrice sui libri che le permettono di viaggiare con la mente; per proseguire agli anni giovanili e al periodo passato in manicomio, otto anni però che la Frame cerca di spiegare - forse inconsciamente - come tutto sommato voluti, resasi conto che non poteva fare altrimenti:

“[...] mi trovai ad assumere la parte a cui più ero abituata, quella della persona passiva la cui vita viene pianificata per lei mentre lei, per paura di essere punita o di suscitare reazioni, non osa rifiutare.” [pag. 470]

E infine la maturità vera e propria raggiunta a trent’anni e descritta nell’ultima parte, in cui Janet decide di lasciare la Nuova Zelanda e di partire per l’Europa con l’intento di raccogliere materiale per un nuovo libro, ma con il segreto desiderio di trovare finalmente un posto tutto suo nel mondo e di diventare qualcuno in maniera dignitosa.

Combattuta però continuamente tra il vivere e il “farsi” vivere dagli altri, si troverà a prendere dolorose decisioni in completa solitudine e a scavalcarne altre con forse troppa leggerezza - come scappare (!!) da un uomo italiano conosciuto in Spagna dopo aver accettato passivamente la sua proposta di matrimonio - ma ad ogni modo la Frame riesce orgogliosamente alla fine dell’autobiografia a sottolineare di essere finalmente una Persona.

Un libro di non facile lettura, molto complesso anche per l’enorme quantità di citazioni e rimandi letterari che la Frame fa suoi per spiegare la sua vita. Un libro comunque incantevole, soprattutto per la prima parte che ripercorre l’infanzia tra gli anni Venti e Trenta, e toccante, forte per un’esistenza così incredibile.

Janet Frame è morta di leucemia nel gennaio del 2004...

[Questo libro fa parte de "La sfida dei libri non letti". Clicca.]

Nessun commento:

Posta un commento